Disdéri, Prince Humbert I de Savoie, Umberto I di Savoia vintage CDV albumen car

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Disdéri, Prince Humbert I de Savoie, Umberto I di Savoia [PD7855] Catégorie : CDV > portraits > Familles Royales et Impériale Année : Circa 1870 Type : CDV, tirage albuminé, 6 x 10.5 cm, vintage albumen print Format (cm): 6,5x10,5 vintage CDV albumen carte de visite, Umberto I di Savoia
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Crown of Italy.svg
Umberto I
Umberto I Re d'Italia.jpg
Re d'Italia
Stemma
In carica 9 gennaio 1878 - 29 luglio 1900
Predecessore Vittorio Emanuele II
Successore Vittorio Emanuele III
Nome completo Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio
Altri titoli Duca di Savoia
Principe di Piemonte
Reggente della Colonia d'Eritrea
Reggente della Colonia di Somalia
Comandante generale delle truppe alpine
Custode della Sacra Sindone
Nascita Torino, 14 marzo 1844
Morte Monza, 29 luglio 1900
Luogo di sepoltura Pantheon
Casa reale Savoia
Padre Vittorio Emanuele II
Madre Maria Adelaide d'Austria
Consorte Margherita di Savoia
Figli Vittorio Emanuele III
Firma UmbertoI.signature.jpg
Umberto I (Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia; Torino, 14 marzo 1844 – Monza, 29 luglio 1900) fu Re d'Italia dal 1878 al 1900.

Figlio di Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia, e di Maria Adelaide d'Austria, regina del Regno di Sardegna, morta nel 1855.

Il suo regno fu contrassegnato da diversi eventi, che produssero opinioni e sentimenti opposti.

Il monarca viene ricordato positivamente da alcuni per il suo atteggiamento dimostrato nel fronteggiare sciagure come l'epidemia di colera a Napoli del 1884, prodigandosi personalmente nei soccorsi (perciò fu soprannominato "Re Buono"), e per la promulgazione del cosiddetto codice Zanardelli che apportò alcune innovazioni nel codice penale, come l'abolizione della pena di morte.

Da altri fu aspramente avversato per il suo duro conservatorismo, il suo indiretto coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana,[1] l'avallo alle repressioni dei moti popolari del 1898 e l'onorificenza concessa al generale Fiorenzo Bava Beccaris per la sanguinosa azione di soffocamento delle manifestazioni del maggio dello stesso anno a Milano, azioni e condotte politiche che gli costarono almeno tre attentati nell'arco di 22 anni,[2] fino a quello che a Monza, il 29 luglio 1900, per mano dell'anarchico Gaetano Bresci, gli sarà fatale.

Proprio dagli anarchici, Umberto I ricevette il soprannome di "Re Mitraglia".[3] Fu anche il destinatario di uno dei biglietti della follia di Friedrich Nietzsche.

Da Umberto I prende il nome l'omonimo stile artistico ed architettonico.

Umberto, da bambino, con la madre Maria Adelaide d'Austria, morta nel 1855.
Umberto nacque il 14 marzo 1844 a Torino, a Palazzo Moncalieri, da Vittorio Emanuele II, allora duca di Savoia ed erede al trono sabaudo (il quale, quello stesso giorno, compiva 24 anni), e da Maria Adelaide d'Austria. Fu battezzato con i nomi di Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio: il primo in onore del fondatore della dinastia sabauda, Umberto I Biancamano, l'ultimo a ricordo del più illustre esponente del ramo cadetto dei Savoia-Carignano, cui anch'egli apparteneva.

Suoi padrini di battesimo furono i nonni paterni, il re di Sardegna Carlo Alberto e sua moglie Maria Teresa d'Asburgo-Lorena, facendo le veci dei loro consuoceri, ovvero Ranieri d'Asburgo, viceré del Lombardo-Veneto ed Elisabetta di Savoia-Carignano, sorella di Carlo Alberto. Umberto ricevette subito il titolo di principe di Piemonte, da sempre attribuito ai primogeniti della casa regnante. La sua nascita fu molto festeggiata dal popolo piemontese, nonché dalla famiglia reale, che così poté vedere assicurata la discendenza maschile. Egli trascorse tutta la sua infanzia, insieme con il fratello minore Amedeo, nel castello di Moncalieri, dove ricevette una formazione essenzialmente militare, avendo come istitutore il generale Giuseppe Rossi e fra gli insegnanti alcuni altri militari; fu questa dura disciplina che ne formò il carattere, trasformandolo tuttavia in età adulta in una persona arida e dalle idee limitate, ma altri lo ritennero "leale, aperto, gentile" e cordiale[4]. Molto legato alla madre, Umberto subì un profondo trauma quando questa morì prematuramente, il 20 gennaio 1855.

Regno di Sardegna
(1831-1861)
Regno d'Italia
(1861-1946)
Casa Savoia
Great coat of arms of the king of italy (1890-1946).svg
Dinastia dei Savoia-Carignano
Carlo Alberto
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Figli
Vittorio Emanuele II
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Umberto I
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Vittorio Emanuele III
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Umberto II
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Vittorio Emanuele di Savoia
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Emanuele Filiberto di Savoia
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Figli
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NOTA
Intrapresa la carriera militare nel marzo del 1858, cominciò col rango di capitano. Successivamente prese parte alla seconda guerra d'indipendenza, distinguendosi nella battaglia di Solferino e San Martino del 1859. Divenuto erede al trono dopo la nascita del Regno d'Italia il 17 marzo 1861, Umberto divenne maggiore generale nel 1863 e tenente generale nel 1864; non mancò di completare la sua formazione con numerosi viaggi all'estero, come quando nel 1863 aveva accompagnato a Lisbona la sorella Maria Pia di Savoia, andante in sposa al re del Portogallo Luigi I, mentre l'anno successivo visitò alcune corti europee amiche dell'Italia e nel 1865 era in visita a Londra, proprio mentre a Torino scoppiavano i tumulti per protesta contro il trasferimento della capitale a Firenze.

Nel 1866 fu inoltre a Parigi, mandato lì da suo padre per un colloquio privato con l'imperatore Napoleone III circa l'imminente conflitto che stava per scoppiare con l'Austria. Infatti nel 1866 scoppiò la Terza guerra d'indipendenza, a cui anch'egli prese parte insieme con il fratello Amedeo; si racconta che, mentre aspettava a Napoli di partire per il fronte, a una vecchina che piangeva per i due figli in guerra, abbia detto: Anche noi siamo due e non abbiamo più la mamma. Raggiunto il fronte delle operazioni in Veneto, Umberto assunse il comando della XVI divisione di fanteria e partecipò con valore allo scontro di Villafranca del 24 giugno 1866, che seguì la disfatta di Custoza. Fu uno dei pochi comandanti militari italiani il cui reparto non fosse stato messo in fuga dagli austriaci, riuscendo piuttosto a respingere numerosi e violenti attacchi degli ulani austriaci e guadagnandosi, per questo, la medaglia d'oro al valor militare.


Duomo di Torino, 22 aprile 1868 Matrimonio di Umberto I con la cugina Margherita di Savoia - L'Illustration de Paris
Il matrimonio[modifica | modifica wikitesto]
Come il padre, Umberto era attratto delle belle donne e si lasciava andare a numerose avventure sentimentali; la più duratura fu con la duchessa Eugenia Attendolo Bolognini Litta, conosciuta durante le feste per il Carnevale del 1867 e il cui legame, rafforzato poi dalla nascita del figlio Alfonso, morto in tenera età, durerà per tutta la vita. Umberto sapeva però che si sarebbe dovuto piegare a un matrimonio di convenienza, voluto dal padre per ragion di Stato. Infatti, subito dopo la fine della guerra, che aveva portato all'unificazione del Veneto al Regno d'Italia, Vittorio Emanuele II pensò di riappacificarsi con la casata asburgica con un matrimonio politico, dopo la temporanea alleanza con la Prussia di Bismarck.

La candidata fu l'arciduchessa Matilde d'Asburgo-Teschen, che però morì tragicamente, ustionata dall'incendio del suo abito (ella stessa stava cercando di nascondere una sigaretta alla governante). Quindi, svanita questa possibilità, il Presidente del Consiglio di allora, Luigi Federico Menabrea, propose come sposa la cugina di Umberto, Margherita di Savoia, figlia di Ferdinando di Savoia-Genova, fratello del re, e di Elisabetta di Sassonia, di 17 anni. Dapprima riluttante, il re d'Italia alla fine acconsentì e ordinò al figlio di impalmare la cugina. Quando il principe ereditario fece la sua proposta a Margherita, questa rispose: Sai quanto sono orgogliosa di appartenere a Casa Savoia, e lo sarei doppiamente come tua moglie!.

Quindi, Umberto e Margherita si sposarono a Torino, il 22 aprile 1868; furono le "nozze del secolo" di allora, e per quell'occasione re Vittorio Emanuele II creò il corpo dei Corazzieri reali, che dovevano fungere da scorta al corteo regale, e l'Ordine della Corona d'Italia, con cui venivano premiati tutti coloro che si erano distinti al servizio della Nazione. La meta del viaggio di nozze furono alcune città italiane, per meglio far conoscere i futuri monarchi italiani alla popolazione; quindi, dopo un soggiorno nella Villa reale di Monza, i neosposi partirono per un viaggio ufficiale a Monaco di Baviera e a Bruxelles, dove vennero accolti calorosamente.


Umberto I in età giovanile (1870)
Quindi, rientrata in Italia, la coppia reale si stabilì a Napoli, poiché la principessa era incinta e si era deciso di farvi nascere l'erede al trono. La scelta della città partenopea non era casuale, ma ben progettata a fini propagandistici, per far meglio notare i Savoia alle popolazioni meridionali, ancora in parte nostalgiche dei Borbone. Il lieto evento avvenne l'11 novembre 1869: il neonato, chiamato Vittorio Emanuele, come il nonno, fu nominato principe di Napoli. Circolarono tuttavia voci secondo le quali Margherita, non potendo avere altri figli, avesse partorito una bambina, prontamente sostituita in culla da un maschio, in modo da garantire la linea di successione. Anni dopo il figlio di quella bambina, una certa Giuseppina Griggi, avrebbe inutilmente chiesto la conferma dei suoi pretesi diritti ereditari.

Tuttavia il matrimonio tra Umberto e Margherita, pur con l'arrivo del figlio, non si rafforzò, quando la principessa avrebbe trovato il marito nel suo appartamento a conversare con la sua amante, la duchessa Litta. Pare che Margherita minacciasse di tornare da sua madre, ma poi, convinta dal suocero (che avrebbe detto: "Solo per questo vuoi andartene?") e facendo appello alla sua forza di volontà, decise di rimanere accanto a Umberto, sebbene avesse dichiarato di non considerarlo più suo marito per ritenerlo soltanto il suo sovrano. Del resto Margherita doveva sapere da tempo della relazione che risaliva a prima del matrimonio. Quando i due si incontrarono la prima volta la duchessa aveva 25 anni e Umberto 18.[5]. Il fallimento del matrimonio, noto solo in ristretti circoli di corte, fu mascherato con una parvenza di felicità usata convenientemente anche a fini politici. Infatti dopo la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870, e la frettolosa visita di Vittorio Emanuele a Roma in dicembre dopo l'inondazione del Tevere, furono Umberto e Margherita a rappresentare la famiglia reale nella futura capitale d'Italia.

Si deve soprattutto a Margherita il merito di aver posto le basi di una riconciliazione tra le due fazioni dell'aristocrazia romana: quella "nera", che, in fedele devozione al papa Pio IX, rifiutava di avere qualsiasi contatto con i sabaudi "usurpatori", e quella "bianca", di idee più liberali, che invece aveva caldeggiato l'unione della città con l'Italia. Il paravento del felice matrimonio sarebbe durato ancora a lungo e avrebbe raggiunto il culmine il 22 aprile 1893, quando furono celebrate con sfarzo le nozze d'argento. La mattina dei festeggiamenti a Roma furono sparati 101 colpi di cannone. Per tale occasione era prevista l'emissione di un francobollo speciale detto appunto Nozze d'argento di Umberto I che però non fu emesso

L'ascesa al trono[modifica | modifica wikitesto]
Alla morte del padre Vittorio Emanuele II, il 9 gennaio 1878, Umberto gli succedette col nome di Umberto I sul trono italiano e di Umberto IV su quello sabaudo, dal momento che suo padre aveva stabilito, malgrado l'unità nazionale, il prosieguo della tradizione nominale sul trono sabaudo. Nello stesso giorno egli emanò un proclama alla Nazione in cui affermava: Il vostro primo re è morto; il successore vi proverà che le istituzioni non muoiono! Il 17 gennaio 1878, giorno dei funerali del padre, Umberto I, accogliendo la petizione del Municipio di Roma, predispose l'inumazione della salma nel Pantheon di Roma, che fece diventare simbolicamente il mausoleo della famiglia reale che ancora oggi accoglie le spoglie dei primi due sovrani d'Italia.

Roma fu luogo simbolico dal momento che la sua presa aveva rappresentato il completamento dell'agognata unità nazionale. Infine, il 19 gennaio, avvenne il solenne giuramento sullo Statuto albertino, nell'aula di Montecitorio, alla presenza di senatori e deputati. Molti erano i problemi da affrontare per il secondo sovrano d'Italia: l'ostilità del Vaticano, che, dopo la morte di papa Pio IX il 7 febbraio dello stesso anno e l'elezione al soglio di Leone XIII, continuava a disconoscere il Regno d'Italia; il tentativo di bloccare sia i fermenti irredentistici e repubblicani che attraversavano il Paese sia i propositi anti-unitari di certi circoli politici occulti, nazionali ed esteri; l'assoluta necessità di creare un ampio fronte di riforme sociali di cui potessero godere le classi meno abbienti; il rilancio dell'economia nazionale, già da troppo tempo stagnante; e soprattutto l'urgentissimo problema di porre fine all'isolamento internazionale dell'Italia e di aumentare il suo prestigio in politica estera.

Più rispettoso del padre della prassi costituzionale, Umberto I fu il primo monarca sabaudo a regnare non "per grazia di Dio"; giurò di agire, già nel suo primo discorso della Corona, "nel rispetto delle leggi". Uno dei primi provvedimenti che Umberto I dovette affrontare da re furono le dimissioni, il 9 marzo, del gabinetto di Agostino Depretis, leader della Sinistra storica; il re, non ritenendo conveniente riaffidargli l'incarico, scelse Benedetto Cairoli, capo della sinistra moderata e politico da lui molto stimato, come nuovo presidente del Consiglio.

Il problema più spinoso che il suo governo dovette affrontare fu la crisi nei Balcani, nata dalla recente guerra tra Russia e Turchia, fatto per cui fu convocato dal cancelliere tedesco Bismarck il Congresso di Berlino. L'Italia, nel timore di prendere impegni troppo gravosi, non vi ottenne nulla.

Il primo tentativo di assassinio[modifica | modifica wikitesto]

L'attentato di Passannante su un giornale dell'epoca
Appena salito al trono, Umberto I predispose subito un tour nelle maggiori città del Regno al fine di mostrarsi al popolo e guadagnare almeno una parte della notorietà di cui aveva goduto il padre durante il Risorgimento. Venne accompagnato dalla moglie Margherita, dal figlio Vittorio Emanuele III e dal presidente del Consiglio Benedetto Cairoli.

Partito da Roma il 6 luglio, il 10 luglio fu a La Spezia, dall'11 al 30 luglio soggiornò a Torino, il 30 fu a Milano, poi a Brescia e il 16 settembre si recò a Monza, dove assistette all'inaugurazione del primo monumento dedicato al padre Vittorio Emanuele II. Il 4 novembre i reali arrivarono a Bologna: il 7 incontrarono il poeta Giosuè Carducci, di idee repubblicane, il quale, rimasto incantato dalla grazia e dalla bellezza della regina Margherita, scrisse per lei pagine di grande ammirazione e le dedicò la celebre ode Alla regina d'Italia.

Tre giorni dopo Umberto e Margherita erano a Firenze, il 9 novembre a Pisa e a Livorno, il 12 novembre si recarono ad Ancona, l'indomani a Chieti e poi a Bari. Il 16 novembre, alla stazione di Foggia, un certo Alberigo Altieri tentò di lanciarsi verso il sovrano. Venne fermato in tempo, tanto che quasi nessuno si avvide del fatto e nemmeno la stampa ne fece parola. Tuttavia un'indagine della polizia portò a scoprire come il giovane non avesse agito da solo, ma nell'ambito di «un complotto per l'assassinio dell'Augusto sovrano» che aveva «il proposito di farne eseguire il tentativo nelle diverse città visitate».[6] Era l'avvisaglia di quanto sarebbe accaduto il giorno dopo.

Giunto a Napoli il 17 novembre 1878 Umberto subì un tentativo di assassinio che fece molto più scalpore: si trovava, insieme con la moglie, il figlio e Cairoli, su una carrozza scoperta che si stava facendo largo tra due ali di folla, quando improvvisamente venne attaccato, con un coltello, dall'anarchico lucano Giovanni Passannante, il quale non riuscì nel proprio intento. Nel tentativo di uccidere il monarca, Passannante urlò: «Viva Orsini, viva la repubblica universale».[7] Il re riuscì a difendersi e un ufficiale dei Corazzieri del seguito si scagliò contro l'attentatore ferendolo alla testa con la sciabola (il Re subì un leggero taglio a un braccio), mentre Cairoli, nel tentativo di bloccare l'aggressore, veniva ferito a una coscia. Il tentato assassinio generò numerosi cortei di protesta, sia contro sia a favore dell'attentatore, e non mancarono episodi di guerriglia urbana tra forze dell'ordine e anarchici.

Il poeta Giovanni Pascoli, durante una riunione di socialisti a Bologna, cominciò la pubblica lettura di un componimento, consegnatogli da una persona presente alla riunione, inneggiante a Passannante. Accortosi del contenuto gettò via la carta ed espresse parole di sdegno.[8]. Pascoli verrà arrestato, in seguito, per aver protestato contro la condanna di alcuni anarchici che avevano manifestato in favore dell'attentatore.[9] L'anarchico venne condannato a morte, ma Umberto I commutò la sentenza in carcere a vita, dato che la pena capitale era solo prevista in caso di regicidio. Le pessime condizioni di Passannante in carcere suscitarono, comunque, polemiche da parte di alcuni esponenti politici.[10]

Dopo l'attentato il re, riconoscente, assegnò al Presidente del Consiglio la medaglia d'oro al valor militare, ma il Parlamento, pur ammirandone il coraggio e la devozione, rimproverò il governo circa la cattiva gestione della politica interna, in particolare riguardo alla sicurezza del re e dello Stato; fu quindi presentata un'interrogazione parlamentare che si concluse l'11 dicembre di quell'anno, con le dimissioni del ministero, il quale fu nuovamente affidato a Depretis.

Attività politica[modifica | modifica wikitesto]

Umberto I e sua moglie Margherita di Savoia
Depretis, tuttavia, fu battuto alla Camera dei Deputati il 3 luglio 1879 e dovette dare di nuovo le dimissioni: il governo passò nuovamente a Cairoli, il quale però, non avendo la maggioranza parlamentare necessaria, dovette coinvolgere parte della Sinistra moderata guidata da Depretis, che fu nominato ministro dell'Interno. Uno dei problemi più urgenti che il governo dovette affrontare fu l'abolizione della tassa sul macinato, che aveva sì permesso il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 1876, ma aveva causato l'ostilità della popolazione per l'aggravio sui beni di prima necessità, ovvero i cereali.

Lo stesso Umberto, il 26 maggio 1880, all'apertura della XIV legislatura parlamentare, pronunciò un discorso in cui si augurava che il Parlamento desse seguito all'abolizione della tassa sul macinato, del corso forzoso e alla riforma elettorale. Così, dopo una serrata discussione parlamentare, il 30 giugno 1880 la Camera votò la riduzione progressiva della tassa sul macinato (che sarebbe stata abolita definitivamente quattro anni dopo), mentre il 23 febbraio 1881 fu abolito il corso forzoso, in vigore dal 1866.

Nello stesso periodo i reali visitarono ufficialmente la Sicilia e la Calabria; quando giunse a Reggio Calabria, il sovrano si lasciò andare a un bagno di folla, dicendo alle forze di sicurezza, preoccupate della sua incolumità: Fate largo, sono in mezzo al mio popolo!

La Triplice alleanza e la politica coloniale[modifica | modifica wikitesto]

Ritratto di Umberto I

Monumento a Umberto I nell'omonimo Corso a Caltanissetta, statua realizzata in bronzo da Michele Tripisciano nel 1911 e collocata nel 1922; sullo sfondo la Chiesa di Sant'Agata al Collegio del XVI secolo.
Nell'ottica della visibilità e del peso internazionale, Umberto I fu un acceso sostenitore della Triplice Alleanza, soprattutto dopo l'occupazione francese della Tunisia nel 1881 e la successiva Alleanza dei Tre imperatori tra l'Austria, la Germania e la Russia. Proprio in questo periodo, inoltre, il governo di Agostino Depretis venne a conoscenza che papa Leone XIII stava interpellando i ministri degli esteri stranieri a proposito di un loro possibile intervento per ripristinare il dominio dello Stato Pontificio.

L'appoggio dell'Austria, la nazione cattolica più prestigiosa, sarebbe stato di grande utilità per l'Italia al fine di stornare un'azione europea in aiuto del Papato.[11] Per l'Italia, la conclusione di un'alleanza con due potenze conservatrici sarebbe valsa sia ad assicurare la monarchia sabauda di fronte ai movimenti repubblicani di ispirazione francese, sia ad assicurarla dall'intervento di potenze straniere che avessero voluto ristabilire il potere temporale del papa.[12]

In appoggio alle iniziative diplomatiche, fra il 21 e il 31 ottobre 1881 Umberto I e la moglie Margherita fecero visita a Vienna all'Imperatore Francesco Giuseppe ed Elisabetta di Baviera. I monarchi italiani fecero un'ottima impressione alla corte viennese, specie Margherita, che a buon diritto, per grazia ed eleganza, venne paragonata all'imperatrice Sissi. Lo stesso Umberto, rigido, severo e austero, fece una così buona impressione che il cugino e antico avversario, Francesco Giuseppe, gli concesse la nomina a colonnello onorario del 28º Reggimento fanteria. Il gesto non mancò di suscitare polemiche in Italia presso l'opinione pubblica, visto che il reggimento austriaco di cui il re era stato fatto colonnello era lo stesso che aveva partecipato alla battaglia di Novara del 1849 e all'occupazione di Brescia, partecipando attivamente alla spietata repressione che causò la morte di migliaia di uomini, donne e bambini bresciani.

Di fronte alle insistenze della Germania il ministro degli Esteri austriaco Gustav Kálnoky cedette all'idea di un'intesa con l'Italia e il 20 maggio 1882 fu firmato il primo trattato della Triplice Alleanza.

Umberto inoltre appoggiò lo slancio coloniale in Africa, con l'occupazione dell'Eritrea (1885-1896) e della Somalia (1889-1905). Il governo italiano aveva già acquistato, il 10 marzo 1882, la baia di Assab dall'armatore Rubattino, il quale a sua volta l'aveva comperata dal sultano locale come scalo per le proprie navi. Quindi si pattuì con il governo inglese la successiva occupazione della città portuale di Massaua, avvenuta il 5 febbraio 1885, nell'ottica di una profonda penetrazione in Sudan, da concordare con gli inglesi, impegnati nel sedare la rivolta mahdista. Ma Londra respinse l'offerta d'aiuto italiana, non più necessaria, e così l'Italia si trovò così "incatenata ad una roccia del Mar Rosso", senza concrete prospettive espansionistiche. Gli italiani cercarono allora di compensare il loro magro bottino coloniale occupando l'entroterra di Massaua, in direzione di Asmara, ma stavolta l'ostacolo fu rappresentato dai guerrieri etiopi del Negus (imperatore) Giovanni IV, che il 27 gennaio 1887 (mentre in Parlamento il ministro degli Esteri De Robilant li definiva "quattro predoni")[senza fonte] tendevano un agguato ad una colonna italiana di 500 uomini comandata dal colonnello De Cristoforis presso Dogali, annientandola completamente.

Solo pochi scamparono, e vennero ricevuti con tutti gli onori al Quirinale da Umberto e dalla moglie Margherita: un onore che non era toccato nemmeno ai reduci del Risorgimento! Malgrado ciò, la notizia dell'eccidio di Dogali ebbe l'effetto di una doccia gelata su Roma, dove spense gli ardori colonialisti e compattò l'opinione pubblica a chiedere la fine dell'avventura africana. Tutto infatti lo lasciava presagire: dimessosi il De Robilant, Depretis, che era stato messo in minoranza e che aveva malvisto l'impresa abissina, riottenne dal re l'incarico di formare il governo, grazie anche all'appoggio di Francesco Crispi e Giuseppe Zanardelli, a capo della cosiddetta Pentarchia, la più forte formazione politica di sinistra. Tuttavia nell'agosto dello stesso anno, il presidente del Consiglio morì, e al suo posto andò proprio Crispi, il quale, al contrario del predecessore, era un convinto assertore della politica africana. Lo dimostrò inviando in Eritrea un contingente di 20.000 uomini al comando del generale Antonio Baldissera e chiedendo all'ambasciatore italiano ad Addis Abeba, conte Pietro Antonelli, di adoperarsi affinché l'Italia potesse trarre partito dalle lotte intestine che dilaniavano l'Etiopia.

Ciò è testimoniato anche da due lettere inviate a Umberto, rispettivamente dal Negus Giovanni IV e dal suo acerrimo nemico, il re dello Scioa Menelik: nella prima, l'imperatore etiope cercava un accordo con il re italiano contro Menelik, che, a sua volta, accusava Giovanni di averlo sobillato contro gli italiani. Le cose subirono una svolta quando, il 10 marzo 1889, Giovanni IV morì in battaglia contro i dervisci del Sudan; subito Menelik ne prese il posto come imperatore con il nome di Menelik II, ignorando i diritti di ras Mangascià, figlio naturale del defunto negus. Per meglio puntellare il suo potere, Menelik decise di patteggiare con l'Italia, accondiscendendo a firmare, il 2 maggio 1889, il trattato di Uccialli: in esso vennero infatti riconosciuti all'Italia i territori occupati in Eritrea e - a causa di un malinteso sulla traduzione dell'articolo 17 dello stesso trattato (che prevedeva, nel testo italiano, per il negus l'obbligo di farsi rappresentare da Roma per trattare con le altre potenze europee, mentre in quello etiope ciò era solo facoltativo) anche il protettorato sull'Etiopia, in cambio di quattro milioni di lire.

L'accordo fu poi siglato con l'invio nella capitale italiana di una delegazione etiope guidata da ras Makonnen, cugino dell'imperatore, che aveva il compito di portare il trattato e pattuire il prestito. I membri della delegazione furono prima ricevuti al Quirinale dai sovrani, poi vennero mandati in giro per le principali città italiane per visitare arsenali, caserme, industrie belliche, al fine di impressionarli e mostrare la potenza militare del Paese. La missione ripartì il 2 dicembre dello stesso anno, riportando in patria il prestito e svariati doni, tra cui un quadro che raffigurava l'Ascensione di Gesù al cielo con il re, la regina e Crispi in preghiera, mentre, da parte loro, gli etiopi avevano portato in dono un elefante. Inoltre, nel 1890 anche alcuni sultanati della Somalia accettarono il protettorato italiano, mentre quello stesso anno fu fondata ufficialmente la Colonia eritrea. Ma il malinteso diplomatico (noto come "beffa di Uccialli"), avrebbe non molto tempo gettato le premesse della prima campagna d'Africa Orientale. Tutto ebbe inizio nel dicembre 1893, quando Menelik non si servì del governo di Roma per trattare alcune questioni commerciali con la Francia, denunciando il trattato firmato pochi anni prima.

Alle richieste di spiegazione da parte di Roma, il Negus aizzò i dervisci contro gli italiani, invitandoli ad attaccare i loro possedimenti: ma gli invasori furono sconfitti dalla colonna di 2.000 ascari e 400 italiani al comando del colonnello Giuseppe Arimondi ad Agordat. Sull'onda di questo successo, Crispi ritenne giunto il momento di far pagare a Menelik di aver tradito l'Italia dopo averla usata per arrivare al trono; ordinò pertanto al successore di Baldissera, generale Oreste Baratieri, di avanzare sull'altopiano etiope, impegnandosi in un'operazione militare che durò tre mesi e si concluse nell'aprile 1895, con la conquista della regione del Tigrè e delle città di Macallè, Adigrat e Adua. Ma Baratieri sottovalutò la capacità di reazione degli etiopi, e allo scoppio ufficiale delle ostilità (7 dicembre 1895), Menelik II contrattaccò, strappando agli italiani gli avamposti di Amba Alagi e Macallè, con il conseguente massacro dei rispettivi contingenti.

A causa di questi insuccessi, il presidente del consiglio pensò di sostituire nuovamente Baratieri con Baldissera, ma proprio il timore di essere destituito convinse il generale italiano ad azzardare la sua mossa tattica, che prevedeva la marcia dei suoi 16.000 soldati verso Adua, dove stazionava il grosso dell'esercito abissino (circa 70.000 uomini). Il 1º marzo 1896 avvenne dunque la decisiva battaglia di Adua, catastrofica per le armi italiani, che costò la vita a ben 6.000 uomini (tra cui due dei cinque generali che erano al comando dell'armata italiana) e spezzò il prestigio derivato dalla conquista africana. Caddero nelle mani degli etiopi 3.000 prigionieri, tra cui moltissimi ascari, a cui fu praticata la pena riservata ai traditori: taglio del piede sinistro e della mano destra.

In Italia i contraccolpi furono gravissimi: Crispi fu costretto a dimettersi e scomparve dalla scena politica; al suo posto andò Antonio di Rudinì, che dovette firmare la successiva pace di Addis Abeba del 26 ottobre 1896, che prevedeva l'annullamento del trattato di Uccialli e la piena sovranità dell'Etiopia, mentre concedeva agli italiani di tenere tutti i territori precedentemente conquistati. Codesta disfatta provocò la fine temporanea dell'avventura coloniale italiana, che si arrestò fino al 1911, con la conquista della Libia.

Politica interna[modifica | modifica wikitesto]

Statua dedicata a Umberto I in piazza Innocent Manzetti a Aosta.
Per quanto riguarda la politica nazionale, Umberto I affiancò l'operato del governo di Francesco Crispi nel suo progetto di rafforzamento interno dello stato. È durante il suo regno che si definisce la figura del Presidente del Consiglio (1890): infatti non presiedeva al consiglio dei ministri, ma si limitava a ricevere il presidente dopo le riunioni di gabinetto e, sentita la sua relazione, a firmare i provvedimenti del ministero, assumendosi, con il tempo, anche responsabilità che, anche se condivise da lui personalmente, erano collettive e parlamentari. La sua attività politica fu anche contrassegnata da un atteggiamento autoritario, dovuto forse alla grave "crisi di fine secolo", dove insurrezioni e moti, come quelli dei Fasci dei Lavoratori in Sicilia e l'insurrezione della Lunigiana (1894) lo portarono a firmare provvedimenti come lo stato d'assedio. A seguito di questi e di altri gravi avvenimenti si procedette allo scioglimento, da parte del governo Crispi, del Partito Socialista, delle Camere del Lavoro e delle Leghe Operaie.

Appoggiò quindi i governi ultra conservatori di Antonio di Rudinì (1896-1898) e di Luigi Pelloux (1898-1900) che rafforzarono le tensioni sociali in tutta l'Italia. Sotto Umberto I avvenne l'introduzione del codice penale Zanardelli (1889), un corpo normativo liberale che portò alcune riforme, come l'abolizione della pena di morte e una certa libertà di sciopero. Il progetto venne approvato con il consenso pressoché unanime di ambedue le Camere.

Durante il suo regno, il sovrano portò solidarietà alle popolazioni colpite da calamità naturali, intervenendo in prima persona con aiuti materiali e opere risanatrici. Già nel 1872, quando era ancora principe, si recò in Campania tra gli sciagurati dell'eruzione del Vesuvio. Appena salito al trono, nel 1879, assistette i siciliani colpiti dall'Etna; nel 1882 andò in Veneto, deturpato da piogge torrenziali e nel 1884 giunse a Napoli, afflitta dal colera.

Nel 1893, Umberto I fu implicato nello scandalo della Banca Romana, ove il re fu accusato di aver contratto elevati debiti e l'allora presidente del consiglio Giovanni Giolitti gli avrebbe garantito la copertura, per la lealtà che giurò alla monarchia e per l'appoggio che egli aveva avuto da casa Savoia negli anni precedenti.[1]

Il secondo attentato[modifica | modifica wikitesto]

Illustrazione dell'attentato di Acciarito
Il 22 aprile 1897, il sovrano subì un secondo attentato da parte di Pietro Acciarito. L'anarchico si mescolò tra la folla che salutava l'arrivo di Umberto I presso l'ippodromo delle Capannelle a Roma, e si buttò verso la sua carrozza armato di coltello. Il re notò tempestivamente l'attacco e riuscì a schivarlo rimanendo illeso. Acciarito venne arrestato e condannato all'ergastolo. Analogamente a Passannante, la sua pena fu molto rigida ed ebbe gravi conseguenze sulla sua salute mentale.

Come il precedente tentato regicidio, si ipotizzò una cospirazione anti-monarchica (sebbene Acciarito avesse smentito tutto, dichiarando di aver agito da solo)[13] e vennero arrestati diversi esponenti socialisti, anarchici e repubblicani che furono sospettati di aver avuto collusioni con l'estremista. Tra questi venne incarcerato un altro anarchico di nome Romeo Frezzi, un amico di Acciarito, perché in possesso di una foto dell'attentatore.[14]

Frezzi morì al terzo giorno d'interrogatorio. Sorsero alcune illazioni sul suo decesso (suicidio e aneurisma) ma l'autopsia confermò che la morte avvenne per sevizie subite dagli agenti di pubblica sicurezza, nel tentativo di estorcere una confessione di connivenza con Acciarito.[15] La vicenda suscitò sommosse popolari contro la monarchia.

I moti di Milano[modifica | modifica wikitesto]

Fiorenzo Bava Beccaris
Il re fu criticato dall'opposizione anarchico-socialista e repubblicana italiana per aver insignito con la Gran Croce dell'Ordine militare di Savoia il generale Fiorenzo Bava Beccaris che il 7 maggio 1898 ordinò l'uso dei cannoni contro la folla a Milano per disperdere i partecipanti alle manifestazioni di protesta popolare (la cosiddetta protesta dello stomaco) causata dal forte aumento del costo del grano in seguito alla tassa sul macinato (1868-1884) compiendo un massacro. La repressione costò più di cento morti e oltre cinquecento feriti secondo le stime della polizia dell'epoca, sebbene alcuni storici ritengano tali stime fossero approssimate per difetto.[16]

Dopo i fatti di Milano, il governo del generale Pelloux intraprese una svolta autoritaria, accingendosi a sciogliere le organizzazioni socialiste, cattoliche e radicali e a limitare la libertà di stampa e di riunione. Esponenti politici come Filippo Turati e Andrea Costa, accusati di aver promosso la rivolta, furono arrestati e, in breve tempo, scarcerati. Lo storico Ettore Ciccotti simpatizzò apertamente per gli insorti milanesi e, con l'accusa di propaganda sovversiva, fu rimosso dall'incarico di docente presso l'accademia scientifico-letteraria di Milano e costretto a fuggire in Svizzera per scongiurare l'arresto.[17]

Tale atteggiamento venne però bloccato alla Camera, dove, ricorrendo all'ostruzionismo, i socialisti costrinsero Pelloux a sciogliere le Camere e ad andare a nuove elezioni, che videro una decisa avanzata della sinistra. Pelloux si dimise e Umberto I, in rispetto delle libertà garantite dallo Statuto, accettò di assegnare la carica di Presidente del Consiglio a Giuseppe Saracco, che diede il via a una politica di riconciliazione nazionale. La premiazione del generale Bava Beccaris fu la causa dell'ultimo e letale attentato al monarca, per opera di Gaetano Bresci.[18]

L'attentato fatale[modifica | modifica wikitesto]

La famosa copertina della Domenica del Corriere, disegnata da Achille Beltrame, illustra l'uccisione a rivoltellate di Umberto I a Monza il 29 luglio 1900, per mano dell'anarchico Gaetano Bresci che perseguiva il preciso scopo di vendicare le vittime delle repressioni governative di fine secolo.

La tomba di Umberto I nel Pantheon, Roma
Il 29 luglio 1900, Umberto I fu invitato a Monza per onorare con la sua presenza la cerimonia di chiusura del concorso ginnico organizzato dalla società sportiva Forti e Liberi; egli non era tenuto a presenziare, ma fu convinto dalla circostanza per cui al saggio sarebbero state presenti le squadre di Trento e Trieste, atleti ai quali - infatti - stringendo le mani, disse: "Sono lieto di trovarmi tra italiani" (frase che non passò inosservata, e che scatenò un uragano di applausi). Sebbene fosse solito indossare una cotta di maglia protettiva sotto la camicia, a causa del gran caldo, e contrariamente ai consigli degli attendenti alla sicurezza, quel giorno fatidico Umberto non la indossò. Tra la folla si trovava anche l'attentatore, Gaetano Bresci, un anarchico toscano emigrato negli Stati Uniti, con in tasca una rivoltella a cinque colpi.

Il sovrano s'intrattenne per circa un'ora, era di ottimo umore: «Fra questi giovanotti in gamba mi sento ringiovanire».[19] Decise di andarsene verso le 22.30 e si recò verso la carrozza, mentre la folla applaudiva e la banda intonava la Marcia Reale.

Approfittando della confusione, Bresci fece un balzo in avanti con la pistola in pugno e sparò alcuni colpi in rapida successione. Non si è mai appurato con precisione quanti, ma la maggior parte dei testimoni disse di aver sentito l'eco di almeno tre. Umberto difatti venne raggiunto a una spalla, al polmone e al cuore. Egli ebbe appena il tempo di mormorare: «Avanti, credo di essere ferito»,[20] prima di cadere riverso sulle ginocchia del generale Ponzio Vaglia, che gli sedeva di fronte in carrozza.


La Cappella Espiatoria a Monza
Subito dopo, i carabinieri comandati dal maresciallo Locatelli cercarono, riuscendovi, di sottrarre il Bresci al linciaggio della folla, traendolo in arresto. Intanto la carrozza col sovrano ormai cadavere era giunta alla reggia di Monza; la regina, avvisata, si precipitò all'ingresso gridando: «Fate qualcosa, salvate il re».[21]

Ma non c'era ormai più nulla da fare; Umberto era già spirato.

L'omicidio suscitò in Italia un'ondata di deplorazione e di paura, tanto da indurre gli stessi ambienti anarchici e socialisti a prenderne le distanze (Filippo Turati ad esempio rifiutò di difendere il regicida in tribunale). Il 9 agosto venne celebrato il funerale religioso a Roma e la sua salma venne tumulata nel Pantheon accanto a quella del padre; il 13 agosto diventò giorno di lutto nazionale.

Molte furono le voci che si alzarono - contro o a favore - il gesto di Bresci, immediatamente messe a tacere dall'introduzione del nuovo reato di "apologia di regicidio", per il quale vennero tratti in arresto due religiosi: don Arturo Capone, parroco a Salerno e fra Giuseppe Volponi, un francescano di Roma.[22] Quest'ultimo, fu condannato a 8 mesi di galera e a mille lire di multa (28 agosto).

Bresci venne processato il 29 agosto e condannato il giorno stesso all'ergastolo, in quanto la pena di morte era in vigore solo per alcuni reati militari, puniti dal Codice penale militare di guerra.[23] Bresci morì suicida il 22 maggio 1901 in circostanze molto dubbie (impiccato nella propria cella), sebbene si dicesse che fosse rimasto vittima di un pestaggio da parte delle guardie.[24]

Il luogo dell'attentato, a Monza, è segnato da una Cappella in sua memoria, costruita nel 1910 su disegno dell'architetto Giuseppe Sacconi, per volontà del figlio del re, Vittorio Emanuele III.

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